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Pensare come una montagna PDF Stampa E-mail
Scritto da Aldo Leopold   

Pensare come una montagna

da “Almanacco di un mondo semplice” di Aldo Leopold

Un urlo profondo echeggia da roccia a roccia, rotola giù per la montagna e si perde nella lontana oscurità della notte. È un’esplosione selvaggia di sfida, dolore e disprezzo per tutte le avversità del mondo.

Tutte le cose vive e forse anche molte di quelle morte prestano ascolto a questo richiamo. Al cervo ricorda la caducità della carne, per il pino è un annuncio delle zuffe di mezzanotte e del sangue sulla neve, per il coyote la speranza di qualcosa da racimolare, per il vaccaro la minaccia di cifre in rosso sul conto in banca, per il cacciatore la sfida di fauci contro una pallottola. Ma dietro queste ovvie immediate speranze e paure si nasconde un significato più profondo, che solo la montagna conosce. Solo essa, infatti, ha vissuto abbastanza per poter ascoltare obiettivamente l’ululato di un lupo.

Anche chi non sa decifrare il significato nascosto tuttavia sa che questo esiste, perché si percepisce in tutti i territori popolati da lupi, distinguendoli da tutti gli altri luoghi. È il brivido che percorre la schiena di chi sente i lupi di notte o ne segue le tracce di giorno.

Anche senza vederli o udirli, la loro presenza è implicita in centinaia di piccoli eventi: il nitrito di un cavallo da soma, a mezzanotte il rumore di sassi che rotolano, il balzo di un cervo in fuga, la forma delle ombre sotto gli abeti. Solo qualcuno irrimediabilmente inesperto può non accorgersi della presenza o dell’assenza dei lupi o del fatto che le montagne hanno di loro un’opinione che tengono segreta.

Le mie convinzioni a questo proposito risalgono al giorno in cui vidi un lupo morire. Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quella che pensavamo fosse una cerva guadare il torrente, immersa fino al torace nell’acqua bianca di spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione: sparare mirando verso qualcosa molto più in basso crea sempre un po’ di confusione. Quando i fucili furono scarichi, il lupo adulto era a terra e un piccolo strascicava una zampa su un impraticabile ghiaione.

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quegli occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo ero giovane e mi prudeva il dito sul grilletto: pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista.

Da allora ho vissuto assistendo all’eliminazione dei lupi da parte di uno Stato dopo l’altro. Ho osservato la faccia di molte montagne da poco senza lupi e ho visto i pendii rivolti a sud segnati da un intrico di nuovi sentieri tracciati dai cervi: ho visto ogni cespuglio e pianticella commestibili venir brucati fino alla consunzione e alla morte ho visto che ogni albero commestibile era privo di foglie fino all’altezza del pomo di una sella. A guardare queste montagne sembra che qualcuno abbia regalato a Dio un nuovo paio di cesoie, obbligandolo a passare tutto il suo tempo potando. Così le ossa dei tanto desiderati branchi di cervi, morti perché erano troppi, si sbiancano assieme ai rami secchi della salvia o si sgretolano sotto i ginepri.

Ho l’impressione che come un branco di cervi vive nella paura mortale dei lupi, così la montagna viva nel terrore mortale dei suoi cervi. E forse per più valide ragioni: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, i danni a un rilievo eroso da troppi cervi forse non saranno riparati nemmeno in altrettanti decenni.

Lo stesso accade per le mucche: il vaccaro che libera dai lupi il suo territorio non si rende conto di sopprimere il lavoro del lupo, che consiste nel riportare la mandria alle dimensioni adeguate rispetto all’estensione del territorio. Non ha imparato a pensare come una montagna. Per questo motivo ci sono zone divenute così sterili da essere ridotte a deserti, e fiumi che credono tutto, trascinando il futuro verso il mare.

Tutti noi ci sforziamo di ottenere sicurezza, prosperità. comodità, longevità e imperturbabilità. I cervi si sforzano con le loro agili zampe, i vaccari con trappole e veleno, gli uomini di stato con la penna, la maggior parte di noi con macchine, voti e dollari, ma tutti mirano alla stessa cosa: vivere in pace. Raggiungere in certa misura questo scopo è già sufficiente e forse è una condizione per poter pensare in maniera oggettiva, ma una sicurezza eccessiva sembra che, a lungo andare, produca solo pericolo.

Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: “La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia”.

Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono.